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Lavoro. Le atlete alzano la voce: in Senato il ddl per il professionismo. Un successo targato Assist per tutto il movimento

Una immagine dell'incontro. (foto com.) ndr.

dall’inviato Vittorio Massaro 

ROMA, 29 SETT. – Sei una donna e vuoi praticare uno sport a livello agonistico? Sappi che potrai vincere di tutto, portare a casa medaglie e trofei da ogni angolo del mondo, finire sulle copertine delle più diffuse riviste di gossip, essere invitata da tutte le trasmissioni radio o tv che ti offriranno di cantare o di ballare, mettere da parte un gruzzoletto che consenta a te e alla tua discendenza una vita agiata, ma non sperare di poter godere di un permesso retribuito, che se ti ammali o resti incinta nessuno ti tiene il posto di lavoro e men che meno te lo paga, se ti infortuni in gara o in allenamento dovrai pagar le spese mediche, la degenza e perfino l’eventuale intervento di tasca tua. E’ questa la condizione dello sport femminile, oggi, in Italia. Professionismo è uguale tabù. Crearti una famiglia mentre giochi in serie A? Peggio per te. Aspetti un bambino? Resti in mezzo alla strada. La pensione? Se smetterai dopo quindici o venti anni ai massimi livelli, avrai solamente perso altrettanti anni della tua vita, perché nessuno avrà versato un centesimo per la tua vecchiaia. Una situazione ormai non più tollerabile, che è diventato il cavallo di battaglia dell’associazione atlete “Assist”, fondata da Luisa Rizzitelli, una tenace e coriacea ex pallavolista pugliese, oggi lungimirante e battagliera manager dello sport e professionista della comunicazione: «Assist – racconta Rizzitelli – nasce da donne, ma soprattutto atlete, perché anche cessando l’attività agonistica si rimane per sempre sportivi e mai ex-atleti. L’associazione non ha un conto in banca, si basa esclusivamente sul volontariato e sulla tenacia con cui questa battaglia di civiltà e di rispetto viene portata avanti». Dopo aver trascorso anni girando in lungo e in largo la Penisola per sensibilizzare le stesse atlete, le società sportive e le istituzioni, finalmente la battaglia per il riconoscimento del professionismo alle atlete ha cominciato ad assumere i connotati della battaglia istituzionale ai massimi livelli. Il primo Meeting nazionale dello Sport femminile, che si è svolto a Roma, ha richiamato attorno al tavolo del dibattito tante atlete del presente e del passato e rappresentanti delle associazioni di atleti di diverse discipline che hanno testimoniato il disagio per le clamorose disparità di trattamento tra uomini e donne dello sport e denunciato anche situazioni di autentica vessazione. Grande attesa intorno all’intervento della vice presidente del Senato della Repubblica, Valeria Fedeli, che ha annunciato: «Domani, 30 settembre,.verrà presentato in Senato un Disegno di legge che punta a modificare la normativa esistente per rimuovere qualsiasi tipo di discriminazione tra professionisti e non, ma soprattutto tra uomini e donne». Un primo segno concreto di interesse da parte degli organi legislativi, visto che la legge 91 è datata 1981 e stabilisce che «scegliere il professionismo degli atleti è a discrezione delle Federazioni». E infatti solo gli uomini che praticano calcio, pallacanestro (limitatamente alla serie A1), golf, ciclismo o boxe sono atleti “professionisti”, il cui rapporto di lavoro con la società è quindi equiparabile al normale lavoro subordinato, con tutte le garanzie che ne conseguono. Per le donne, nessuno sport è riconosciuto come professione. Un assurdo, negli anni 2000. Atlete ancora in attività e glorie del passato hanno raccontato episodi in qualche caso raccapriccianti. La grande Stefania Passaro (icona del basket): «Un allenatore mi aveva confinata in panchina e volevo cambiare squadra, pur rimanendo in A1, dove avevo alcune richieste. Il presidente mi rispose che non poteva garantirmi la permanenza nel massimo campionato e mi spiegò che “se un barattolo di conserva me lo pagano di più in A2, tu vai in A2». La leggenda della pallavolo tricolore, Manù Benelli: «Da allenatrice, sono stata anche costretta a firmare una clausola in cui mi impegno a “non importunare” le giocatrici». Spiega: «Io non ho mai nascosto il mio orientamento sessuale, ma mi sembra veramente assurdo che io debba firmare clausole di questo genere che non vengono imposte agli allenatori maschi. Anzi, se sono loro a portarsi a letto le giocatrici, poi gli viene battuta una pacca sulla spalla». Josefa Idem, da anni in prima fila con Assist, titolatissima eroina del canottaggio, ha rivelato di aver disputato un Mondiale incinta – naturalmente dopo essersi assicurata che il bimbo e lei stessa non corressero rischi – per non perdere quello che aveva ottenuto nella sua carriera. Lavinia Santucci, cestista in attività: «I nostri contratti sono solo degli accordi privati, che non ci tutelano da nessun punto di vista. Io mi sono infortunata al ginocchio e mi sono dovuta operare e riabilitare: ho dovuto fare tutto da sola, perché il mio contratto non mi dà un’assicurazione sanitaria. Negli accordi sono anche specificati con chiarezza i due motivi per cui possiamo essere cacciate: in caso di arresto e in caso di gravidanza». Durissima la testimonianza della giovane Arianna Cau, campionessa di wakeboard e snowboard: «Lavoro per pagarmi l’iscrizione alle gare e le trasferte. Viaggio con un pulmino, da sola, di notte per risparmiare sull’albergo e il ristorante. Ho venduto l’attrezzatura che non mi serve per pagarmi un mese nelle Filippine per allenarmi da sola, mentre la Nazionale (tutti uomini) era in ritiro, sempre per un mese, in Thailandia, a spese della Federazione». Grandi assenti della giornata: il Coni e le atlete della pallavolo. Ma la battaglia di Assist, cui ha assicurato il sostegno di recente la Regione Puglia, e l’iniziativa delle atlete dell’All Reds Rugby Roma cominciano a fare breccia. Le rugbiste, infatti, hanno lanciato su change.org una petizione nei confronti del Coni per il riconoscimento del professionismo alle atlete che ha già raccolto oltre 26 mila firme. L’urlo delle donne dello sport finalmente si alza forte e chiaro e sarà difficile, per gli uomini che governano lo Stato, il Coni e le Federazioni, fare finta di non averlo sentito.





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