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Lecce. Caporalato: le prime condanne per riduzione in schiavitù

Migranti africani nelle baraccopoli (foto L.Manna) ndr.

di Luciano Manna


Dodici persone condannate dai tre agli undici anni
TARANTO, 14 LUG. – Si conclude così, con undici persone condannate con una sentenza in primo grado della Corte d’Assise di Lecce, l’inchiesta del procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone e dei carabinieri del Ros nata nel 2008 e terminata nel 2011 in concomitanza della rivolta nella masseria Boncuri, a Nardò in privincia di Lecce, condotta dai braccianti africani con a capo il camerunense Yvan Sagnet giunto in Italia qualche anno prima per conseguire la laurea in ingegneria a Torino. La sentenza letta dal presidente Roberto Tanisi, la prima in Italia per “riduzione in schiavitù”, conferisce ad ognuna delle seguenti persone undici anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici: all’imprenditore Pantaleo Latino, 63 anni, di Nardò; al tunisino Ben Mahmoud Saber Jelassi, 47 anni, detto “Sabr”, lo stesso nome dato all’inchiesta e allo stesso processo; a Livio Mandolfo, 51 anni, di Nardò; a Giovanni Petrelli, 54 anni, di Carmiano; al sudanese Meki Adem di 56 anni; al tunisino Aiaya Ben Bilei Akremi di 33 anni; all’algerino Yazid Mohamed Ghachir di 48 anni; al sudanese Saeed Abdellah di 30 anni; al tunisino Rouma Ben Tahar Mehdaoui di 42 anni; al sudanese Nizar Tanja di 39 anni. Assolti dall’accusa di riduzione in schiavitù ma condannati a tre anni di reclusione e a cinque di interdizione dai pubblici uffici, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla permanenza irregolare di stranieri, il cinquantacinquenne Marcello Corvo di Nardò e il tunisino Abdelmalek Aibeche Ben Abderrahma Sanbi Jaquali di 46 anni.


Espressioni di soddisfazione ma di altrettanta cautela quelle pronunciate da Yvan Sanget subito dopo aver appreso la notizia della sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Lecce: “Plaudiamo a questa sentenza come plaudiamo l’approvazione recente della legge 199/2016 contro il “caporalato”. Plaudiamo ma non esultiamo perché ci rendiamo conto che per rimuovere le cause profonde del “caporalato” c'è bisogno di una rapida transizione verso un nuovo modello economico sostenibile, incentrato sulla persona umana e non sul profitto, che valorizzi il lavoro e le produzioni locali di filiera corta, che produca capitale sociale e rispetti l'ambiente. Questo modello economico non può essere imposto per sentenza e nemmeno per decreto legge. Questo nuovo modello economico può solo essere introdotto dalla politica e da questo punto di vista c'è ancora moltissima strada da fare. La sentenza di oggi rappresenta una decisione storica e se verrà confermata in via definitiva contribuirà alla repressione di alcuni degli aspetti più vergognosi e disumani del caporalato, quelli  che attengono alla violazione dei diritti fondamentali della persona umana. Ma ci rendiamo anche conto che essa non rimuoverà le cause profonde del caporalato, perché il caporalato non è solo in Puglia e non è solo presente in agricoltura. Per questa ragione da domani riparte luna nuova fase dell'impegno dell'associazione NO CAP, da me presieduta, per sensibilizzare i decisori politici a qualunque livello e promuovere e mettere in rete tutte le realtà economiche che già stanno già superando tutte le forme di “caporalato” dando vita a quel un nuovo modello di economia sociale di mercato atto a rimuoverne le cause profonde  dando valore al lavoro e non al profitto e garantendo i bisogni della persona umana e non gli interessi della grande finanza internazionale”.


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