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'La Buona Politica' - Referendum consultivi: prove di autonomie locali

Referendum consultivi. (foto web) ndr.

di Cosimo Imbimbo 

BARI, 31 OTT. -  Talvolta caparbiamente temi scottanti e obiettivamente scarsamente concretizzabili, vista anche la vicinanza delle elezioni politiche, ritornano, dopo che per ben due volte siano stati rigettati: i referendum consultivi di Lombardia e Veneto. I referendum del 23 ottobre sono stati sostanzialmente superflui: una perdita di tempo e risorse pubbliche, a detta di taluni, al tempo stesso sono una buona notizia. Non sembri, questa, una contraddizione con quanto ho appena affermato: si tratta di un segnale − insieme a quelli che vengono dall'economia, con crescite del Pil e dell'occupazione superiori alle attese − che stiamo uscendo dalla fase più acuta della peggiore crisi economica che ha travolto l'Italia negli ultimi settanta anni e che possiamo tornare a occuparci di temi che erano stati derubricati dall'agenda politica. È stata la crisi a fermare la riforma della finanza locale scritta nella riforma costituzionale del 2001 e attuata nel 2009 con la legge 42 sul federalismo fiscale. 
Un progetto che aveva, e mantiene, l'ambizione di valorizzare una delle più importanti ricchezze che l'Italia ha ricevuto dalla sua storia, un asset competitivo eccezionale che non ha eguali al mondo: un vasto universo di istituzioni locali e municipali riconosciute dai cittadini, con radici storiche stratificate, base della democrazia repubblicana, front office quotidiano con i problemi reali delle famiglie e delle imprese. Un progetto, si badi bene, fissato dalle norme costituzionali dentro un quadro di sostenibilità e di solidarietà, in cui l'autonomia è strumento per un rapporto più stretto, e valutabile, fra cittadini e amministratori e lo Stato esercita funzioni di coordinamento e di perequazione. Sul nucleo fondante di questo progetto le proposte di riforma costituzionale sottoposte al voto il 4 dicembre 2016 non intervenivano: non era modificato il terzo comma dell'articolo 116 sull'autonomia differenziata (oggetto del referendum lombardo-veneto), né l'articolo 119 sulla finanza locale. La riforma (purtroppo) bocciata il 4 dicembre interveniva sull'articolo 117, riorganizzando in modo più efficiente la ripartizione delle funzioni fra Stato e Regioni e introducendo un quadro uniforme di regole per il funzionamento degli enti regionali (statuti, organizzazione delle assemblee elettive, costi di auto-amministrazione). La crisi ha bloccato il processo di riforma della finanza locale, ha prodotto un aumento di centralizzazione, ha chiesto agli enti locali e regionali un contributo importante all'aggiustamento di finanza pubblica: 18 miliardi di riduzione di spesa fra 2009 e 2015, in base ai dati della Corte dei Conti. 
Un'inversione di tendenza è emersa negli ultimi due anni con il superamento del patto di stabilità interno, che ha permesso un aumento di spesa di 2,5 miliardi, di cui 1,5 per investimenti. Il vecchio patto di stabilità obbligava enti locali e regionali a raggiungere un attivo: può sembrare paradossale ma la regola dell'equilibrio di bilancio ha consentito al comparto di liberare risorse che prima tornavano allo Stato. Tornando a parlare di federalismo però non dobbiamo fare l'errore di ripartire da zero. Come direbbe Massimo Troisi ripartiamo almeno da tre. Grazie alla legge 42 e al lavoro di institutional building degli anni successivi oggi conosciamo costi e fabbisogni standard dei servizi essenziali e delle funzioni fondamentali di Regioni e Comuni. Siamo in grado di misurare le capacità fiscali standard dei territori. Queste conoscenze sono condivise fra Stato, Regioni e Comuni e hanno permesso di mettere in campo strumenti di coordinamento della finanza pubblica multilivello in passato inesistenti, come i piani di rientro dei deficit sanitari delle Regioni o i fondi perequativi comunali. Comunque rimane il dato politico, tuttavia, ed è un dato politico enorme: tre milioni di voti in Lombardia, pari al 40% dei votanti e più di due milioni in Veneto, con un’affluenza che supera il 60%, sono innanzitutto segnali inequivocabili di una questione settentrionale mai sopita e che torna prepotentemente alla ribalta. 
È una questione che ha ingredienti noti - meno tasse, meno Stato, più sicurezza - ma anche elementi nuovi: oggi il Nord è una Locomotiva stanca, incazzata e ferita. In Veneto, soprattutto, dove è ancora aperta la ferita del crollo bancario della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Ma anche nei territori della Lombardia profonda, che arranca, anziché correre come Milano, metropoli che va alla grande - in parte a discapito del resto della regione, cui drena intelligenze, funzioni e risorse economiche - che non a caso ha snobbato alla grande l’appuntamento referendario. Immediate le critiche del segretario regionale lombardo del PD Alessandro Alfieri, secondo cui Maroni passerebbe alla storia come "il presidente della Lombardia che ha speso 46 milioni di euro per fare una cosa che si può fare gratis". Alfieri, riporta Il Fatto quotidiano, ha quindi invitato Maroni a lasciar perdere una manovra del genere: "Ci ripensi, non è con inutili iniziative di parte, ma tenendo insieme il territorio lombardo, che si possono ottenere risultati per i cittadini". Ricordiamo che il referendum, ha soltanto carattere consultivo e non prevede quorum. 
Andrebbe poi aperto un tavolo con il governo per ottenere maggiori competenze. Nel seguente caso dove hanno vinto i sì, i due Governatori leghisti ora si presenteranno, al soglio governativo nazionale, con maggiore forza contrattuale.



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