Morto a 94 anni Giulio Andreotti, icona del potere
Il Presidente Giulio Andreotti. (foto) ndr. |
di Redazione
ROMA, 6 MAG. - Il senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti e' morto stamane, poco prima delle 12,30, nella sua abitazione romana. Nessuno come lui puo' dire di aver fatto l'Italia, nemmeno il Conte di Cavour. Se questi l'Italia la penso', la volle e la sogno' (ma non la vide), Andreotti di sogni non ne ebbe mai molti. Di volonta' pero' ne ebbe tanta, e soprattutto capacita' di pensiero. Molto piu' di pensiero che si azione, se e' vero che lo riformarono in malo modo alla visita di leva e lui, divenuto ministro della difesa, ando' a vedere che fine avesse fatto quell'ufficiale medico, per scoprire che se lo era portato via un infarto prima del tempo. Andreotti, piu' di Cavour, ci ha lasciato l'Italia che conosciamo, con i suoi pregi (che sono molti) e i suoi difetti (che sono altrettanti). Lui il Paese lo ha lentamente e costantemente plasmato, con quella capacita' di vedere e intervenire prima degli altri con una prontezza che Manzoni mise in bocca al conte Zio e Guicciardini indica, nei suoi "Ricordi", come una delle vere cifre dello statista. Non a caso Andreotti e' stato l'unico politico italiano a divenire una leggenda ancora da vivo. Come tutte le leggende, ha sempre diviso in due campi chi ne parlava. I suoi detrattori a sinistra lo chiamavano Belzebu' (tradendo pero' una involontaria ammirazione per le sue presunte arti mefistofeliche), i suoi ammiratori a sinistra (ne aveva) al centro e anche a destra (ne aveva pure qui) ne hanno sempre parlato come l'unico vero statista moderno del paese. Piu' di Aldo Moro, piu' di Alcide De Gasperi. Addirittura. Lui e Aldo Moro si conoscevano dai tempi della Fuci, la federazione universitaria dell'Azione Cattolica. Sotto il fascismo la Fuci era guardata con sospetto perche' era esattamente quello che Mussolini intuiva: non un covo di oppositori in armi, ma il campetto dove si addestravano quanti si stavano preparando al momento in cui il regime avrebbe dimostrato la sua caducita'.
Lui e De Gasperi invece si conobbero un po' piu' tardi, auspice il Cardinal Montini, e presto ne divenne sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Quando andavano in chiesa, si prese a dire nella Roma del dopoguerra, De Gasperi parlava con Dio, il suo assistente con il sacrestano.
Chissa' se e' vero, o se e' uno dei tanti aneddoti che lo stesso Andreotti non disdegnava di alimentare. Fatto sta che Andreotti non ebbe mai con il Vaticano quel rapporto di profonda affezione e sofferta insofferenza che invece ebbe il suo primo mentore.
Al quale si deve il conferimento del primo incarico governativo all'allievo tanto promettente, e che ricompenso' con il tempo tutta questa fiducia divenendo (in ordine di importanza): sette volte presidente del Consiglio; otto volte ministro della difesa; cinque volte ministro degli esteri; tre volte ministro delle partecipazioni statali; due volte ministro delle finanze; una volta ciascuno ministro degli interni, delle politiche comunitarie e del tesoro.
Si sente dire ne "Gli onorevoli", storico film di Toto' del 1963: "Non c'e' rosa senza spine, non c'e' governo senza Giulio".
Erano 50 anni fa esatti, e a Giulio mancava ancora un bel pezzo di carriera. Tanto e' vero che il Giulio che era presente in ogni governo divenne, con il tempo, il Divo Giulio.
Omaggio alla sua immanenza, si', ma anche alla sua seconda caratteristica piu' precipua, e cioe' la sua romanita'. Di lui nel 1999 scrisse l'Economist (che non l'ha mai avuto in simpatia): "Appartiene ad una specie di romano in via d'estinzione. Nel Rinascimento avrebbe potuto essere un cardinale di curia che, al centro di complotti ed intrighi, dirige la transizione da un Papa all'altro".
In effetti questa definizione, almeno secondo il comune sentire, gli si attaglia molto piu' di quel titolo che i Romani attribuirono a Cesare, ma solo dopo averne bruciato le spoglie accanto al muro della casa del Pontefice Massimo. Anche perche' da autentico romano e' vero che sapeva gestire i romani, cosi' come e' vero che i romani amano ancora adesso i giochi del Circo. Ma lo ha sempre fatto evitando atteggiamenti da Augusto al Circo Massimo, presentandosi alla folla acclamante per consegnare il lauro al beniamino della curva.
No, lui ha sempre preferito fare, per l'appunto, come un cardinale, convocando il beniamino della curva di fronte alla sua scrivania, per convicerlo - tenendo le mani giunte in atteggiamento di profondo ascolto- a far cio' che il popolo di Roma desiderava.
Lo sa bene Paulo Roberto Falcao, indimenticato regista della nazionale brasiliana e della Roma dello scudetto 1982-83.
Compiuta l'impresa, Falcao avrebbe voluto lasciare Roma per approdare ad altri lidi e trovare nuovi stimoli.
Come i suoi compagni di nazionale Dirceu, Zico e Socrates, che amavano cambiare spesso squadra per continuare a divertirsi e magari gonfiar il portafoglio. Il popolo di Roma, per bocca di qualche ristoratore o qualche parroco bene informato (Andreotti sapeva come si mantengono i legami con il collegio elettorale, mica come con il Porcellum) gli fece giungere all'orecchio la supplica. E lui, amichevolmente, serenamente, pacatamente, un giorno fece sedere davanti alla sua scrivania il Campione riluttante.
Il quale usci' da quello studio avendo cambiato idea: dire no ad un cardinale e' dura, dirlo ad una divinita' impossibile. Andreotti e' stato uno dei principali esponenti della Democrazia Cristiana, partito politico laico di ispirazione cattolica che ha governato l'Italia dal 1945 al 1993. Anche per questo e' stato facile accostarlo ai numerosi misteri della storia recente. Accusato di mafia - e non condannato - amava rispondere: "Se fossi andato davvero in Sicia ad incontrare Toto' Riina in piena luce del giorno non dovrebbero chiudermi in galera, ma in un manicomio".
Accusato di aver usato l'intransigenza all'epoca del caso Moro per disfarsi di un pericoloso rivale interno al partito - cosa che gli dava particolarmente fastidio - rispondeva ricordando che, all'epoca, aveva fatto anche il voto di rinunciare al gelato, sua unica grande passione oltre alla politica e alla moglie, pur di riavere l'amico a casa.
E qui si torna alla sua romanita', ed al suo rapporto con la religione. Un rapporto che per i romani e' sempre, almeno in apparenza, talmente semplice da poter sembrare poco maturo ("I romani", diceva Montesquieu, "sono un popolo bambino").
Se il Trentino sforna santi, Roma produce eccellenti chierichetti.
Insomma, il rapporto con il Cielo e' elementare, ma non e' detto che per questo sia anche sgradito. E che Andreotti (Belzebu', Divo Giulio, Conte Zio o come lo si voglia definire) non finisca per essere visto da Chi conta sul serio, sotto sotto, come un piu' o meno involontario simbolo d'innocenza. Il che sarebbe veramente l'ultimo dei suoi tiri mancini.
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