'La Buona Politica' - F. Truffaut: I QUATTROCENTO COLPI (anno 1959)
F. Truffault. (foto com.) ndr. |
di Cosimo Imbimbo
BARI, 22 LUG. - Per chi avesse la fortuna di accedere a cineteche di qualità ecco consigliare un'opera cinematografiche tra le più significative del cinema francese: I Quattrocento colpi. La trama che ha come scenario Parigi, narra le vicende di un ragazzino 12enne Antoine, che attraversa e interpreta le classiche inquietudini di un figlio che deve convivere con il dolore di genitori disattenti ed attanagliati dai propri interessi, mal interpretando i reali bisogni affettivi dell'adolescente.
Un padre solo interessato al mondo dei motori e delle corse, una madre scoperta a baciare uno sconosciuto, sollevano quello stato di deterioramento caratteriale di Antoine dove le continue fughe scolastiche poi da casa, lo conducono ad uno scombussolamento comportamentale che lo getterà per le strade di Parigi in una sorta di tragico vagabondaggio ed infine in riformatorio. Il cinema di Francois Truffaut è tutto dentro la condizione provvisoria del genere umano. I quattrocento colpi è forse uno dei più chiari manifesti artistici sulla solitudine della condizione adolescenziale alle prese con un mondo adulto ostile ed estraneo. La vita del piccolo Antoine (Jean-Pierre Léaud) suggerisce, sin dal principio, l’idea di una gabbia: il ragazzo soffre per la costrizione di trovarsi sottomesso e sottoposto all’ordine e alle leggi della scuola, non resiste al clima distaccato e artefatto che respira quotidianamente nella sua abitazione, scivola e sfugge come può di fronte a ogni tentativo degli adulti (dell’autorità ) di imporre un comportamento e determinare e condizionare la propria vita. E allora non stupisce che questa gabbia che tiene segregato alla vita l’antieroe del film si materializzi, finalmente, nelle sbarre di una prigione in cui viene condotto, senza che ciò stupisca lo spettatore, proprio dal patrigno: l’autorità è metamorfica, ma ha una sola poetica. Quella dell’imposizione e della repressione. Il ragazzo che non aveva mai visto il mare e fuggiva per vederlo, era ispirato a un ricordo di famiglia, a proposito di mia nonna che vive ancora e ha 92 anni e che diceva una frase magnifica: "Ho visto il mare una volta alla Paramount". "Le donne piangono fuori, gli uomini piangono dentro di loro" scrive Truffaut in una lettera, il giorno di Natale del 1951, ma sono oltre 500 le lettere inviate a colleghi, amici, amanti, nemici, tutte bellissime, tutte interessanti, vera riprova che Truffaut era anche un vero scrittore sia nel saper raccontare storie, sia nell'uso delle parole. Anche quando queste sono velenose o infuocate: la lettera inviata a Jean-Luc Godard e, su concessione del destinatario, pubblicata integralmente è una vera mitragliata.
Ancora una volta Truffaut inizia un singolare viaggio introspettivo che gli riporta alla mente la sua infanzia di ragazzino timido e impacciato, oppresso da una figura materna libertina e, al contempo, severa, nonché le sue storie di uomo adulto alla spasmodica ricerca dell’amore. Manifesto della Nouvelle Vague francese, il primo film di Truffaut è un inno alla libertà dell'infanzia, in parte autobiografico, che disegna e descrive le vicende di un bambino, nel quartiere in cui il regista è nato. La forma filmica è immediata, viva, realista, strizza l'occhio a Rossellini, e rappresenta i volti e le vite dei piccoli uomini nelle strade parigine, nelle sue sfaccettature più intime, nei discorsi fra amici che condividono gli stessi luoghi. La poesia dei primi anni dell'esistenza risulta apparentemente rotta dalla coercizione del riformatorio, insieme di rigide regole che dovrebbero indicare la retta via; è però nell'ultima magica sequenza, mostrata secondo dopo secondo nel più classico stile della "Nouvelle Vague", in quella corsa di Doinel verso il mare, che i capelli possono finalmente seguire il vento, e lo sguardo finalmente perdersi senza paura verso gli anni dell'età adulta.Truffaut, narratore moderno, drammatizza i suoi tentativi di costruirsi un destino romanzesco, ma ricordando che tutto, da un momento all’altro, potrebbe rientrare nel quotidiano.
Anche l’episodio più avventuroso, il furto della macchina per scrivere, scivola implacabilmente nella banalità e Antoine non viene scoperto mentre ruba, ma quando, deluso e impaurito, torna nell’ufficio per restituire la refurtiva.
Un padre solo interessato al mondo dei motori e delle corse, una madre scoperta a baciare uno sconosciuto, sollevano quello stato di deterioramento caratteriale di Antoine dove le continue fughe scolastiche poi da casa, lo conducono ad uno scombussolamento comportamentale che lo getterà per le strade di Parigi in una sorta di tragico vagabondaggio ed infine in riformatorio. Il cinema di Francois Truffaut è tutto dentro la condizione provvisoria del genere umano. I quattrocento colpi è forse uno dei più chiari manifesti artistici sulla solitudine della condizione adolescenziale alle prese con un mondo adulto ostile ed estraneo. La vita del piccolo Antoine (Jean-Pierre Léaud) suggerisce, sin dal principio, l’idea di una gabbia: il ragazzo soffre per la costrizione di trovarsi sottomesso e sottoposto all’ordine e alle leggi della scuola, non resiste al clima distaccato e artefatto che respira quotidianamente nella sua abitazione, scivola e sfugge come può di fronte a ogni tentativo degli adulti (dell’autorità ) di imporre un comportamento e determinare e condizionare la propria vita. E allora non stupisce che questa gabbia che tiene segregato alla vita l’antieroe del film si materializzi, finalmente, nelle sbarre di una prigione in cui viene condotto, senza che ciò stupisca lo spettatore, proprio dal patrigno: l’autorità è metamorfica, ma ha una sola poetica. Quella dell’imposizione e della repressione. Il ragazzo che non aveva mai visto il mare e fuggiva per vederlo, era ispirato a un ricordo di famiglia, a proposito di mia nonna che vive ancora e ha 92 anni e che diceva una frase magnifica: "Ho visto il mare una volta alla Paramount". "Le donne piangono fuori, gli uomini piangono dentro di loro" scrive Truffaut in una lettera, il giorno di Natale del 1951, ma sono oltre 500 le lettere inviate a colleghi, amici, amanti, nemici, tutte bellissime, tutte interessanti, vera riprova che Truffaut era anche un vero scrittore sia nel saper raccontare storie, sia nell'uso delle parole. Anche quando queste sono velenose o infuocate: la lettera inviata a Jean-Luc Godard e, su concessione del destinatario, pubblicata integralmente è una vera mitragliata.
Ancora una volta Truffaut inizia un singolare viaggio introspettivo che gli riporta alla mente la sua infanzia di ragazzino timido e impacciato, oppresso da una figura materna libertina e, al contempo, severa, nonché le sue storie di uomo adulto alla spasmodica ricerca dell’amore. Manifesto della Nouvelle Vague francese, il primo film di Truffaut è un inno alla libertà dell'infanzia, in parte autobiografico, che disegna e descrive le vicende di un bambino, nel quartiere in cui il regista è nato. La forma filmica è immediata, viva, realista, strizza l'occhio a Rossellini, e rappresenta i volti e le vite dei piccoli uomini nelle strade parigine, nelle sue sfaccettature più intime, nei discorsi fra amici che condividono gli stessi luoghi. La poesia dei primi anni dell'esistenza risulta apparentemente rotta dalla coercizione del riformatorio, insieme di rigide regole che dovrebbero indicare la retta via; è però nell'ultima magica sequenza, mostrata secondo dopo secondo nel più classico stile della "Nouvelle Vague", in quella corsa di Doinel verso il mare, che i capelli possono finalmente seguire il vento, e lo sguardo finalmente perdersi senza paura verso gli anni dell'età adulta.Truffaut, narratore moderno, drammatizza i suoi tentativi di costruirsi un destino romanzesco, ma ricordando che tutto, da un momento all’altro, potrebbe rientrare nel quotidiano.
Anche l’episodio più avventuroso, il furto della macchina per scrivere, scivola implacabilmente nella banalità e Antoine non viene scoperto mentre ruba, ma quando, deluso e impaurito, torna nell’ufficio per restituire la refurtiva.
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