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Il Tuo Avvocato. “L'Istituto della grazia tra dottrina e giurisprudenza: potrebbe essere concessa a Berlusconi?”

Silvio Berlusconi. (foto) ndr.

di Giuseppe Degioia

BARI, 2 SET. - Tiene banco ormai da settimane l'ultima, se non altro in ordine cronologico, vicenda di giustizia che ha interessato un esponente degli Organi Istituzionali della nostra amata Repubblica Italiana: di certo, la notizia di una condanna non sarebbe stata così straordinariamente altisonante se il soggetto in questione non fosse l'ex Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Non che l'uomo politico debba essere necessariamente integerrimo o che la Magistratura possa sempre sfoderare il divin dono del giudizio assoluto, utopia dei giorni nostri, inutile raccontarsi frottole nonostante, almeno in teoria, il cittadino medio dovrebbe pretendere un'Autorità giusta ed una Giustizia autoritaria, valide entrambe erga omnes ed al di sopra di ogni compromesso; eppure, è solo l'argomentazione di carattere socio-politico ad imperversare tanto nelle piazze e nei bar quanto nei palazzi di governo: può la Magistratura, seppur dopo un iter lungo ben tre gradi di giudizio, esautorare ed addirittura cancellare il potere di un uomo scelto democraticamente e ripetutamente da una buona parte dell'elettorato per essere questo stesso rappresentato? La Suprema Corte di Cassazione in tal senso si è espressa chiaramente condannando il Cavaliere ad una pena esemplare e che, probabilmente ed in maniera più che mai esplicita, è finalizzata ad impedire allo stesso la prosecuzione della vita politica e, fermo restando il parere positivo della Giunta, a consacrare la sua cosiddetta “decadenza” dagli incarichi parlamentari. La sensazione odierna è quella che i componenti della Giunta si stiano muovendo proprio in tal senso: se così dovesse essere, per i noti legali di Silvio Berlusconi si renderebbe necessario, allora, ricorrere all'istituto della concessione della “grazia” al Capo dello Stato, considerato che non sembrerebbero esistere i presupposti per un processo di revisione a norma dell'art. 629 e ss. c.p.p. Rassegna stampa, dottrina e giurisprudenza stanno supportando lo studio e l'analisi dell'istituto in questione. E' opportuno ricordare come “la grazia” ha origini storiche antichissime, essendo strettamente collegata all'istituto monarchico: poiché, infatti, il Monarca era la fonte di tutti i poteri e la giustizia era amministrata in suo nome, era perfettamente logico che ci fosse la possibilità, da parte dello stesso, di rivedere tutte quelle sentenze penali passate in giudicato che potevano offendere in qualche modo il sentimento di giustizia o costituire una soluzione politica alternativa alla pena. Di sicuro, maggiori problemi di inquadramento ha sollevato l’avvento del costituzionalismo moderno ed, in particolare, del principio della separazione dei poteri, in primo luogo, a causa della perdita di importanza del capo dello Stato a favore dell'Organo parlamentare, tanto che il Governo si rende autonomo dal primo e finisce per legare la sua permanenza in carica a quest’ultimo (Fiducia parlamentare) oltre che, in secondo luogo, per l’incidenza dei provvedimenti di clemenza sulle attribuzioni del potere giudiziario: si tratta di un atto individuale di clemenza che va ad incidere sulle pene comminate, condonandole o commutandole in altre di specie diversa, sul presupposto processuale della ''irrevocabilità della sentenza penale di condanna'', con operatività solo nell'odierna configurazione, anche in difetto di istanza dell’interessato. Ai sensi dell’art. 87, 11 c., cost., il Presidente della Repubblica può concedere la grazia e commutare le pene, esercitando un’attribuzione che incide nella fase della loro esecuzione, con effetti eliminativi o riduttivi della sanzione irrogata. L’importanza e delicatezza di tale istituto va ravvisata nel difficile punto di equilibrio tra il principio costituzionale di eguaglianza e certezza della norma da una parte, e l’atto di clemenza dall'altra che, in quanto atto altamente discrezionale , non può e non deve ledere i principi ed i fondamenti di uno stato di diritto. L'effettiva natura del provvedimento di grazia ha visto avvicendarsi nel tempo teorie che non hanno mai trovato consensi unanimi e l’opinione pubblica è stata in verità più sensibilizzata a “tifare” o meno per questo o quel graziando, più che a capire il nocciolo reale del problema, consistente su chi fosse realmente in possesso dei requisiti o, soprattutto, chi fosse il titolare del discusso potere. Il dibattito sulla effettiva titolarità del potere di grazia si è fatto più intenso in seguito al ''caso Sofri'', portato alla ribalta dai media nell'estate del 2003 quando il Presidente della Repubblica Ciampi comunicò di essere disposto a concedere la grazia, ove il Ministro della giustizia avesse avanzato la relativa proposta. Per tutta risposta, il ministro Castelli ribadì come spettasse al Capo dello Stato concedere la grazia ai condannati, ma ciò doveva essere fatto solo su proposta del Guardasigilli che aveva l'obbligo di assumersene la piena responsabilità politica. Una sorta di concerto, dunque, nel quale, se il Ministro non propone la grazia, il Capo dello Stato non può concederla di sua sponte. Il Guardasigilli concluse così: ''pertanto sono giunto alla determinazione di non trasmettere al Presidente della Repubblica la pratica relativa alla domanda di grazia di Adriano Sofri, assumendomi in prima persona la piena responsabilità di questo atto.” La Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 18 maggio 2006 dirime definitivamente la questione statuendo che la grazia, in quanto atto di natura ''umanitaria'', è da ricondurre alla potestà decisionale del Capo dello Stato, relegando a mera formalità la controfirma ministeriale del provvedimento. Il potere di grazia neutrale e garantistico, trova definitivamente collocazione tra le prerogative di esclusiva competenza presidenziale. L’argomentazione della Corte è sottile: «La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’articolo 27 Costituzione, garantendo soprattutto il ''senso di umanità'', cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall'articolo 2 Costituzione, non senza trascurare il profilo di ''rieducazione'' proprio della pena». Altresì puntualizza ancora la Corte che ''il Presidente della Repubblica è chiamato ad apprezzare la sussistenza in concreto dei presupposti umanitari che giustificano l'adozione del provvedimento di clemenza" in ragione della sua estraneità da "quello che viene definito 'il circuito dell'indirizzo politico-governativo". L’estraneità da tale circuito in definitiva, nel limite del vicolo di scopo a cui la grazia è diretta, ben può convivere senza menomarla, con una forma di governo parlamentare. La sentenza n. 200/2006 per il suo considerato in diritto, rivela una serie di passaggi argomentativi che ne fanno, a pieno titolo, una decisione di sistema tra le più significative anche per la definizione della vigente forma di governo: “La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, quelli consacrati nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, garantendone soprattutto il “senso di umanità”, cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile nell’art. 2 della Costituzione, non senza trascurare il profilo di “rieducazione” proprio della pena”. L’intervento della Corte si rivela perciò decisivo per una più esatta interpretazione del dettato costituzionale in merito alla concessione della grazia ed, una volta in più, si sottolinea la fondamentale importanza del ruolo di Presidente della Repubblica, non solo in senso meramente rappresentativo del Paese bensì in quello ben più importante di garantista della corretta amministrazione della giustizia. 

Articolo a cura di: 
STUDIO LEGALE STEFANO REMINE 
P.zza Vittorio Emanuele 55-56 
Bari - Ceglie





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