Bari. “ Chi ti vede mai ti può dimenticare …”: grazie, Bari, ti voglio bene!
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Una immagine del lungomare di Bari. (foto) ndr. |
di Nicola Cutino
BARI, 19 MAG. - Un vecchio adagio barese ripete: “ Sanda Necòle iè amànde de le frastìre” con il significato che il Santo di Myra favorisce le arti, le attività produttive e il commercio del forestiero a svantaggio della intraprendenza dei Baresi. A parte l’ allegoria ed il buon senso dei proverbi, “Criste vede e prevvède a tutte quanne, specialmènde a ce se u preghe”. Pare ca nesciùne iè ma’ chendènde a stu munne e se lagne, terànne sembe l’ acque a la via so’. Però, capetèsce, ironì de la sorte, ca qualchedùne s’ acchendènde e rengràzie u Segnòre Dì pe la palandène (= abbondanza) dei doni ricevuti, per il cielo e il mare, per la famiglia, per la gente ( umanetà) che ci circonda e ci accoglie jìnde a la casa lore. Dunque: “Amìche che tutte e nemiche che nesciùne” (n.d.r. la scrittura dialettale barese del testo corrisponde al modello adottato dal Seminario di Studio e di Approfondimento sul Dialetto Barese). Molti poeti e scrittori hanno decantato la nostra Città, tra questi Alfredo Giovine il quale ha scritto “ Fra tutte le brellànde e perle rare/ No(n) (i)acchie nu gioièlle come a Bare”. La poetessa Anna Cassano rincara la dose con i seguenti versi di una sua bella lirica: “ No pute, da sope a u meragghiòne (de Bare), no merà ngandàte cudde granne sblendòre, ca no se pote ma’ da la mende scangellà” (in “Florilegio Barese. Andologì dialettale barèse de poete e screttùre condemborànie” di A.A. V.V. a cura del Seminario Permanente di Studio e di Approfondimento sul Dialetto Barese di Mondo Antico e Tempi Moderni Wip Edizioni Bari 2012 pag 63). Campanilismo? Assolutamente no, se un signore di nome Carmelo Colelli, scrittore di tradizioni mesagnesi, mi ha inviato (12.02.2014) uno scritto, emotivamente coinvolgente, sul proprio trasferimento da Mesagne, suo paese natale a Bari, eleggendo, per sempre, il Capoluogo della Puglia a sua residenza: “ Ecco finalmente il mare, il mare di Bari! Era un giorno di inverno, qualche giorno prima di Natale, di un po’ di tempo fa, avevamo lasciato il nostro paese, un paese agricolo, Mesagne, alle porte di Brindisi e, dopo alcune ore, il camion con le nostre masserizie percorreva il lungomare. Alla mia destra il mare, un mare diverso da quello che conoscevo, un mare che abbracciava la città, un mare con dei colori particolari, azzurro, blu, blu intenso, verde in alcuni punti, bello, tanto bello: meraviglioso ai miei occhi, occhi di un fanciullo di undici anni, che aveva vissuto in un paese senza il mare, ma con tanta campagna, le case basse una accanto all’altra, dipinte di bianco, con la calce. Il mare era leggermente mosso, le onde si rincorrevano una dietro l’altra, una un po’ più grande delle precedenti, andò ad infrangersi contro il muretto del Lungomare e gli schizzi si alzarono in alto, verso la strada, come a porgere un saluto, a chi arrivava: a me. Avevo lasciato tutto al mio paese, i parenti, i compagni di scuola, gli amici con cui giocavo per strada,
i miei giochi, giochi semplici che noi ragazzi ci costruivamo da soli, ero triste, ma contento nello stesso tempo, avevo voglia di conoscere, di vedere, di scoprire la città. Da quel giorno sono trascorsi quasi cinquant’anni, ma tutto è chiaro, le immagini vivide ed attuali, come il primo giorno, nel mio cuore convive l’amore per il mio paese e l’amore per questa città, una città che mi ha accolto come una zia accoglie il nipote prediletto, lo tiene con sé, gli racconta della vita e lo porta in giro per mostrargli le cose più belle. I ricordi sono tanti, tante le scene di vita quotidiana che ormai non si vedono più. Ricordo il fornaio che, la mattina presto, percorreva Via Manzoni, su una bicicletta, con una lunga tavola sulla testa e su questa aveva sistemate le pagnotte di pane da cuocere, che portava al forno, quello in pietra che si trovava in Via Abate Gimma, di fronte ad un palazzo storico ed importante, l’Istituto Nautico “N. Caracciolo”. Andavo a curiosare vicino al forno, un giorno la mia curiosità mi spinse ad entrare e vidi che oltre alle pagnotte di pane, vi erano anche tanti tegami con varie pietanze da cuocere o già cotte, un po’ come avveniva al mio paese. Facendomi un po’ di coraggio chiesi ad una signora cosa conteneva il suo tegame, mi rispose sorridendo: “No u vide ca iè u tiane de patàne rise e cozze?”. Non capii nulla, la ringraziai ed andai via. Ancora oggi, non so ben pronunciare la risposta che la signora mi diede, ma capii che doveva essere una prelibatezza, col tempo ho verificato la bontà di quella pietanza, è diventata la mia preferita, una pietanza che unisce terra, mare e amici. La domenica pomeriggio c’era l’usanza di fare la passeggiata sul lungomare, si percorreva Corso Vittorio Emanuele e si giungeva al Palazzo della Motta, quello che aveva una grande “M” luminosa in cima, un edificio altissimo, il più alto di tutti in quella zona, di fronte il Teatro Margherita che in quelli anni era anche cinema. Sul Lungomare, ogni tanto vi erano delle scalette di tre quattro gradini che scendevano a livello dell’acqua, da lì si poteva prendere la barca, sì vi erano delle piccole barche che facevano il giro sul mare, andando verso il molo e ritornando. Era bello vedere il mare calmo come una tavola che abbracciava la città e cullava i baresi, cullava i turisti, cullava dolcemente le coppie degli innamorati, che si facevano portare dal barcaiolo un pò più lontano per sognare insieme il loro futuro. Era un festoso vociare di bambini, di mamme che rincorrevano i piccoli e di barcaioli: “la varche, la varche!” era il loro grido. Sul lungomare, c’era anche il carrettino bianco e azzurro, con le coppe cromate e splendenti, spinto da un uomo vestito di bianco, con il cappellino, era il carrettino dei gelati, quelli di limone, fatti artigianalmente, che davano sollievo alla calura estiva. Il tempo stava passando e con sé stava portando via tante cose, come le carrozze nere vicino alla stazione o vicino al Teatro Petruzzelli; la gente le usava come taxi, era piacevole sentire il rumore degli zoccoli, i campanelli dei finimenti, ed era curioso vedere i cavalli fermi con la testa infilata in un sacchetto di iuta a consumare il loro pasto: paglia e biada. Cavalli
snelli, ben tenuti, eleganti nel portamento, ma non erano gli unici, vi erano anche i cavalli che trainavano i pesanti carri per il trasporto delle merci, questi li si poteva trovare in Corso Italia, sotto i ponti della Bari-Matera, vicino alla fontana, davanti alle scale che portavano al sottovia Quintino Sella. Ciò che mi colpì, la prima volta che vidi questi cavalli, fu il particolare delle scarpe, sì i cavalli, avevano ai piedi delle scarpe fatte di pezzi di copertoni di auto, subito non capii perché li costringevano a portare quei calzari, alla prima pioggia tutto mi fu chiaro, l’asfalto utile per le auto, quando pioveva diventava scivoloso ed era per questo che quei cavalli li stavano trasformando in auto iniziando dai loro piedi. Giorno dopo giorno, tralasciando tanti ricordi, sono giunto a questa sera: percorro con l’auto il Lungomare, il mare leggermente mosso, le onde una dietro l’altra si infrangono sui frangiflutti, la schiuma sale in alto come a salutare chi passa, a salutare me, ma, questa sera voglio essere io a salutarti caro mare, a dirti grazie per tutto quello che mi hai dato e dai a chi ti guarda con amore, il grazie più sentito a te cara zia, che anche se un po’ più anziana, rimani sempre bella o meglio sei ancora più bella, ancora più innamorata dei tuoi figli e di tutti i tuoi nipoti, grazie Bari ti voglio bene e quando vuoi bene è per sempre” (Carmelo Colelli). Grazie, amico, di apprezzare così tanto la nostra Città da taluni diffamata con il malvezzo di distruggere ad ogni costo tutto e denigrare tutti con sgradevoli pregiudizi, ca u frastìre no tene: “So’ state ianne e mise a curà na rose./ Nesciùne (have) avùte ardìre d’ alzà na mane./ A’ menùte nu frastìre de lendàne, s’ acchegghiùte la rose che tutte u rame” ( riportato da Alfredo Giovine in Saggio di Canti Popolari d’ amore baresi tratto da Le sinètte andìche de lo Popolo de Baro). Fa eco il poeta Biagio Loconte: “ … Passano gli anni, i lustri, i secoli, qui dai monti, dalle vallate, o pellegrini, voi tornate come rondini in frotta…” (in “Florilegio Barese. Andologì dialettale barèse op. cit pag 186). Mentre Savino Morelli, poeta pluripremiato, commediografo e regista teatrale de “L’ Allegra Compagnia” di Bari aggiunge con sentimento ed emozione: “Pe cazzà sta terra benedètte/ da pizze de munne u stranìre venètte /…/ No vogghie nudde, vogghie la lune/ achiùgghe l’ ecchie e tenghe fertùne. So’ Barèse, tenghe mbitte nu core/ ca sckatte de passìone e iè chine d’ amòre” (in “Florilegio Barese. Andologì dialettale barèse op. cit pag. 248). Concludo questa nota con le parole di una antica melodia in lingua: “O Bari, la regina sei del mare … chi ti vede mai ti può dimenticare … dolce incanto … che fantasticar Ci fa’ “.
(* Prof. Nicola Cutino Presidente del Seminario Permanente di Studio e di Approfondimento sul Dialetto Barese e dell’ Associazione Onlus Mondo Antico e Tempi Moderni).
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