'La Buona Politica' - Economia: l’euro, la fine di una lunga storia d’amore
L'Euro. (foto com.) ndr. |
di Cosimo Imbimbo
BARI, 27 FEB. Lo spread a 200 punti ci ha fatto ricordare che la crisi del debito sovrano dell’Italia non è finita e che è stata solo anestetizzata dal “quantitative easing” della BCE, rimasta praticamente l’unica a comprare i nostri titoli di stato in grandi quantità, tenendone bassi i rendimenti. La bassa crescita economica, la risalita della disoccupazione, la crisi delle banche italiane e il malcontento crescente degli elettori tra un governo e l’altro stanno aumentando seriamente le probabilità che prima o poi l’Italia esca fuori dall’euro A rigor di logica l'Italia dovrebbe essere il primo Paese a uscire perché è l'unico Paese che ha tutti gli svantaggi e nessun vantaggio. Gli altri Paesi in crisi maggiore, penso a Spagna e Grecia, hanno subito il colpo ma adesso stanno avendo un risarcimento, sono cioè pagati attraverso il Fondo salva Stati. L'Italia è l'unico Paese in crisi che paga.
Quindi se fossimo intelligenti, e se il dissenso non fosse stato canalizzato in modo innocuo verso il Movimento 5 Stelle, saremmo i primi a dire basta. Invece siamo molto indietro in termini di comprensione del problema e credo che i media abbiano in questo le loro responsabilità, perché spargono terrorismo in modo vergognoso sulle conseguenze di un'uscita dall'euro. Se l'austerità venisse eliminata mantenendo l'euro andremmo ancora più in crisi. Perché le persone, avendo dei soldi in più da spendere, comprerebbe prodotti stranieri. Non si può risolvere la crisi agendo solo sull'austerità. Lo possono fare Usa, Giappone e Inghilterra perché hanno un cambio corretto della loro valuta. E possono fare il quantitative easing, il pacchetto di stimolo, possono abbassare le tasse e aumentare la spesa per spingere il Pil, senza rischiare che questi soldi poi fuggano all'estero a causa del cambio sbagliato. Nella replica ad una interrogazione dei Cinque Stelle al parlamento europeo, Draghi ha spiegato che nel caso un paese lasci l’euro, la sua banca centrale deve prima pagare tutti i debiti con la stessa BCE: “If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full”.
Di quanto si parla? La frase di Draghi è in fondo ad una lettera in cui si spiegava perché l’Italia è fortemente indebitata con la BCE attraverso il sistema di pagamenti del Target 2 (un effetto indiretto del Quantitative Easing). Il debito con l’eurosistema della nostra banca centrale (come si ricava dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a dicembre 2016) è al momento pari a circa 356,5 miliardi di euro a cui vanno sottratti i crediti, per un indebitamento netto pari a 312 miliardi. Si tratta di quasi il 20% del nostro PIL.Questo debito non potrebbe in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale. Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema. D’altro canto se le cose stanno davvero nel modo in cui le dipinge l’economista, se l’euro sta andando davvero verso una reale e lenta dissoluzione – difficile pensare che resista ad un’uscita– c’è da chiedersi che senso ha sbattere la testa sugli output gap? Le differenze contabili tra deficit strutturale e Pil potenziale, cui non crede più nessuno. E poi non che gli altri stiano messi tanto bene.
Semplice, l’euro sottintende un’impostazione ideologica, pari nel disastro a quella sovietica, per la quale gli Stati non devono occuparsi di politica economica e tutto ciò che è richiesto per far funzionare il sistema è uno strumento oligarchico e tecnico e una banca centrale, indipendente dalla politica e quindi dalla democrazia, che si occupi teoricamente di controllare l’inflazione a tutti i costi, anche da macelleria sociale. Il disastro di oggi è semplicemente il risultato di questa ideologia. Molti sono ancora convinti di no e che non ci sia alternativa. Però sembra che i popoli si stiano svegliando da soli, con motivi un po’ diversi, ma in una unica direzione, con ripristino della democrazia partecipata e senza la “sinistra” storica e radicale. Una possibilità per l’Italia, in effetti, ci sarebbe, per evitare un esito che potrebbe essere catastrofico - si pensi solo all’esplosione di un debito pubblico denominato in Euro se si decidesse di riadottare una moneta nazionale il cui valore sarebbe automaticamente svalutato dall’impossibilità di fare un qualche affidamento sulla cordata che ci lega ad uno dei Paesi più affidabili del mondo - o, perlomeno, per arrivare ad una rinegoziazione di un Patto che non funziona in una posizione che non sia di debolezza: una possibilità che dipende tutta dal nuovo governo: riprendere, con umiltà, senza clamori, la strada dei cambiamenti concreti (non più quelli annunciati e rimasti a metà strada) che nel tempo, il pochissimo che ci è rimasto, recuperino fiducia.
È una strada strettissima ma che non ha alternative e che tocca al prudente Gentiloni percorrere senza indugi.
Quindi se fossimo intelligenti, e se il dissenso non fosse stato canalizzato in modo innocuo verso il Movimento 5 Stelle, saremmo i primi a dire basta. Invece siamo molto indietro in termini di comprensione del problema e credo che i media abbiano in questo le loro responsabilità, perché spargono terrorismo in modo vergognoso sulle conseguenze di un'uscita dall'euro. Se l'austerità venisse eliminata mantenendo l'euro andremmo ancora più in crisi. Perché le persone, avendo dei soldi in più da spendere, comprerebbe prodotti stranieri. Non si può risolvere la crisi agendo solo sull'austerità. Lo possono fare Usa, Giappone e Inghilterra perché hanno un cambio corretto della loro valuta. E possono fare il quantitative easing, il pacchetto di stimolo, possono abbassare le tasse e aumentare la spesa per spingere il Pil, senza rischiare che questi soldi poi fuggano all'estero a causa del cambio sbagliato. Nella replica ad una interrogazione dei Cinque Stelle al parlamento europeo, Draghi ha spiegato che nel caso un paese lasci l’euro, la sua banca centrale deve prima pagare tutti i debiti con la stessa BCE: “If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full”.
Di quanto si parla? La frase di Draghi è in fondo ad una lettera in cui si spiegava perché l’Italia è fortemente indebitata con la BCE attraverso il sistema di pagamenti del Target 2 (un effetto indiretto del Quantitative Easing). Il debito con l’eurosistema della nostra banca centrale (come si ricava dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a dicembre 2016) è al momento pari a circa 356,5 miliardi di euro a cui vanno sottratti i crediti, per un indebitamento netto pari a 312 miliardi. Si tratta di quasi il 20% del nostro PIL.Questo debito non potrebbe in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale. Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema. D’altro canto se le cose stanno davvero nel modo in cui le dipinge l’economista, se l’euro sta andando davvero verso una reale e lenta dissoluzione – difficile pensare che resista ad un’uscita– c’è da chiedersi che senso ha sbattere la testa sugli output gap? Le differenze contabili tra deficit strutturale e Pil potenziale, cui non crede più nessuno. E poi non che gli altri stiano messi tanto bene.
Semplice, l’euro sottintende un’impostazione ideologica, pari nel disastro a quella sovietica, per la quale gli Stati non devono occuparsi di politica economica e tutto ciò che è richiesto per far funzionare il sistema è uno strumento oligarchico e tecnico e una banca centrale, indipendente dalla politica e quindi dalla democrazia, che si occupi teoricamente di controllare l’inflazione a tutti i costi, anche da macelleria sociale. Il disastro di oggi è semplicemente il risultato di questa ideologia. Molti sono ancora convinti di no e che non ci sia alternativa. Però sembra che i popoli si stiano svegliando da soli, con motivi un po’ diversi, ma in una unica direzione, con ripristino della democrazia partecipata e senza la “sinistra” storica e radicale. Una possibilità per l’Italia, in effetti, ci sarebbe, per evitare un esito che potrebbe essere catastrofico - si pensi solo all’esplosione di un debito pubblico denominato in Euro se si decidesse di riadottare una moneta nazionale il cui valore sarebbe automaticamente svalutato dall’impossibilità di fare un qualche affidamento sulla cordata che ci lega ad uno dei Paesi più affidabili del mondo - o, perlomeno, per arrivare ad una rinegoziazione di un Patto che non funziona in una posizione che non sia di debolezza: una possibilità che dipende tutta dal nuovo governo: riprendere, con umiltà, senza clamori, la strada dei cambiamenti concreti (non più quelli annunciati e rimasti a metà strada) che nel tempo, il pochissimo che ci è rimasto, recuperino fiducia.
È una strada strettissima ma che non ha alternative e che tocca al prudente Gentiloni percorrere senza indugi.
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