Le Buona Politica' - La classe operai non va più in paradiso
La Classe Operaia. (foto com.) ndr. |
di Cosimo Imbimbo
BARI, 25 MAG. -- Senza dubbio è una condizione sempre più complessa ed articolata quella che
investe gran parte della classe operaia italiana investita tra concorrenza,
degli immigrati a basso costo ed un uso abusato di sistemi
salariali abnormi.
La pressione capitalistica sulla classe operaia – in periodo di crisi –aumenta
considerevolmente portando un peggioramento generale delle condizioni di
esistenza degli operai su diversi livelli (parliamo di condizioni di esistenza
perché esse comprendono le condizioni di lavoro, di vita, di lotta);aumentano,
nello stesso tempo, le sollecitazioni materiali e oggettive che spingono i
proletari a reagire nelle diverse forme (sia con manifestazioni di protesta
nell’ambito democratico, sia con la lotta più o meno decisa) e a scontrarsi con
le pratiche opportuniste e con la repressione poliziesca; non svaniscono ma, al
contrario, si rafforzano le illusioni democratiche in forza delle quali i
proletari credono di potere ottenere il ritorno alle condizioni precedenti o,
perlomeno, di fermare il progressivo peggioramento delle loro condizioni di
esistenza. Ai tentativi di uscire dalla palude delle pratiche impotenti dell’
opportunismo sindacale attraverso forme di resistenza alla pressione
capitalistica come l’occupazione degli stabilimenti o i presidi permanenti
davanti ai loro cancelli, il collocarsi per giorni e notti sulle gru o sulle
torri, il manifestare con cadenza giornaliera per le strade e nei luoghi-
simbolo delle proteste (le discariche nel napoletano, i cantieri dell’alta
velocità in Val di Susa ecc.) ed altri episodi dello stesso tipo, si
accompagnano tentativi parziali e isolati di autorganizzazione proletaria,molto
spesso confusi e contraddittori, al di fuori degli apparati
tricoloritradizionali, nelle diverse forme di sindacalismo alternativo con le
quali cercare di dare alle loro lotte più efficacia anche se si limitano ad
organizzare localmente e settorialmente gli strati proletari stanchi dell’
impotenza dei sindacati ufficiali e decisi a trovare alternative più valide.
Definiamo rivoluzione industriale del capitalismo l'introduzione di nuove
tecnologie,produzioni e organizzazioni del lavoro tali da modificare sia la
forma, la composizione e l'apparato tecnico del settore industriale, sia la
composizion ed ella classe operaia, le sue figure chiave e le forme del suo
lavoro. In questo senso riconosciamo come prima rivoluzione industriale
l'introduzione della macchina a vapore nella manifattura già esistente; essa
coincide con quella che comunemente è intesa come Rivoluzione Industriale a
cavallo del XVIII e XIXsecolo. Complessivamente si è dunque verificata la
scomparsa delle grandi concentrazioni industriali, fatta eccezione per alcuni
comparti“tradizionali” come quello dell'auto, della petrolchimica e della
cantieristica. La sopravvivenza di alcune grandi concentrazioni industriali
nelle metropoli non smentisce la tendenza di fondo della produzione
capitalistica alla frammentazione del processo produttivo e dunque delle unità
produttive stesse.Per anni alcuni intellettuali borghesi anche sedicenti
marxisti (Toni Negri,Marco Revelli e altri) hanno cantato la “scomparsa della
classe operaia” come soggetto politico in nome del fatto che “gli operai non
lottano”.
Dopo la battaglia aperta dagli operai di Pomigliano nel 2010 si sono
riciclati dietro la tesi che la classe operaia oggi è frammentata e precaria e
quindi incapace di azione politica. In realtà, per quanto i padroni chiudano e
delocalizzino,sono ancora migliaia le aziende capitaliste abbastanza grandi
(vedasi la tabella pubblicata qui accanto) perché gli operai possano assumere
un ruolo sociale e politico, costituendo organismi che mobilitino i lavoratori
per assicurare la continuità delle aziende (contro delocalizzazione, chiusura,
riduzione dell’attività e dell’occupazione) e che organizzino e mobilitino le
masse popolari per la rinascita di tutta la vita sociale, per il risanamento
del paese, per la creazione di un nuovo sistema di relazioni sociali. "La
grande fabbrica di una volta non c'è più e con essa è scomparsa l'identità
operaia" ha affermato Susanna Camusso. Proseguendo nella sua riflessione, il
segretario della Cgil ha puntualizzato: "La fine della classe operaia come
l'abbiamo conosciuta nel Novecento non vuol dire la fine del lavoro dipendente
e subordinato, che anzi oggi si vede messo all'angolo sul piano delle
retribuzioni e dei diritti". Un esempio? "I lavoro nei call center – ha
risposto la Camusso – nell'immaginario è ancora considerato un lavoro
temporaneo per giovanissimi, rappresenta invece il lavoro fisso per molti 30-
40enni, a 800 euro al mese e senza diritti". Se di questione operaia si vuole
parlare, secondo la Camusso, si deve includere anche queste tipologie di lavori
e la riscossa deve partire da qui.
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