Cosenza. Il suicidio di Alessandro: tra verità giudiziarie e caccia ai "demoni"
Giuseppe Soluri. (foto) ndr. |
di Carmine Calabrese
COSENZA, 20 OTT. – Gli occhi pieni di lacrime. Sono quelli di Venere e Franco Bozzo, genitori di Alessandro. Loro, così come i figli Marianna, Roberto, la nipotina Venere, di lacrime ne hanno versate tante e continuano a farlo. Perchè il dolore non si ferma, anzi, cresce con il tempo, si dilata con il passare dei giorni e fa male. Ogni secondo di più. Anche per me, il dolore è grande. Intenso, forte, vero. Per quanto cerchi di “blindarlo”, lui non si lascia rinchiudere in un angolo e isolarsi. Alessandro, prima di essere uno straordinario collega, dalla penna sopraffina, dall'intelligenza fuori dal comune, dallo spirito combattivo da vero cronista di strada, era, o meglio è, un amico. Uno di quelli che ti aiutano a cresce, a capire, a migliorare. Nella vita, così come amava ripetere sempre lui “in questo “fottuto” lavoro”. Alessandro non c'è più, ha deciso di andare via per sempre. In una sera di marzo, esattamente il 15 dell'anno 2013, con un colpo di pistola alla testa. Ha scelto il modo più tragico per “liberarsi” dai suoi dolori, dai suoi demoni o dalle sue paure. Per la sua morte è finito sotto inchiesta Piero Citrigno, ex editore di Calabria Ora. L'accusa nei suoi confronti è di “violenza privata”. Il capo d'imputazione a Citrigno (già condannato in via definitiva per usura e attualmente sottoposto al regime della detenzione domiciliare, ndr) è stato contestato dal procuratore aggiunto Domenico Airoma e dal pm Maria Francesca Cerchiara. I due magistrati ad Alessandro, lo conoscevano bene. Era impossibile non volergli bene. Era impossibile non sorridere alle sue battute, non lasciarsi affascinare dal suo modo di essere. Diretto, dissacrante, autentico e vero. Ma forse, vero e autentico, riusciva ad esserlo con gli altri, ma non con se stesso. L'Alessandro che io ricordo, non aveva mai mostrati segni d'insofferenza, né d'angoscia. Li aveva in testa, li custodiva nell'anima e li combatteva a colpi di penna. Quella penna che usava per sfogarsi, per ribellarsi, per lottare. Contro i suoi demoni, contro le sue paure. Ed è proprio in quelle sue “confessioni” liberatorie che raccontava la sua sofferenza. Quel suo modo di soffrire, nel veder calpestata la sua dignità da cronista. Le indagini, condotte dai carabinieri sul suo suicidio, hanno accertato che quando gli mancava un foglio, i suoi pensdieri, la sua rabbia, il suo dolore, nascosto e silenzioso, lo condivideva con i muri del bagno del Palazzo di giustizia, diventato uno dei suoi tanti domicili. Ale, forse pensava di farcela. Pensava di avere dentro di se la forza di vincerla la sua guerra contro le sue paure. Casomai con l'aiuto di un Grande Spirito, quello dei suoi amati indiani. Di cui sapeva tutto, di cui leggeva tanta. Di cui, parlavamo per ore, tra un tiro di sigaretta e un sorso di caffè. Ma Alessandro non ce l'ha fatta più a combattere. Ha abbassato la sua “ascia” e ha scelto di arrendersi alla guerra e farsi vincere. Dopo il suo gesto disperato, carabinieri e Procura, anche sollecitati da mamma Venere e papà Franco, hanno rovistato nella vita di Alessandro, a caccia di indizi, a caccia di verità. Gli inquirenti e gli esperti della magistratura hanno sequestrato il suo pc, fotografato e analizzato le scritte nei bagni, raccolto foglietti volanti, con su scritti bozze di pensiero e “pizzini” di malessere. Un lavoro delicato, certosino, laborioso. Un lavoro investigativo che s'è concentrato su quel suo diario, su quel suo “confessore” segreto, cui ogni giorno confidava i suoi tormenti. Ed è proprio leggendo quelle pagine, che gli inquirenti sono arrivati fino a Piero Citrigno. “Mediante minacce – si legge nel capo d'imputazione – costringeva Bozzo Alessandro a sottoscrivere, dapprima gli atti indirizzati alla “Società Paese Sra Editoriale srl”, editrice della testata giornalistica “Calabria Ora”, nei quali dichiarava, contrariamente al vero, di voler risolvere consensualmente, il contratto di lavoro a tempo indeterminato con la predetta società, senza nulla a pretendere e rinunciando a qualsiasi azione o vertenza giudiziaria e, successivamente, a sottoscrivere il contratto a tempo determinato con la società “Gruppo Editoriale C&C srl”, nuova società editoriale della medesima testata giornalistica”. E nel suo diario segreto, tutto questo Alessandro, l'aveva raccontato con un “beh, firmiamo quest'estorsione”.
L'UDIENZA – All'inizio del processo, l'aula è piena di gente. Ci sono avvocati che, con Alessandro avevano costruito un rapporto di stima professionale e di amicizia, ci sono i familiari, ci sono gli amici storici e ci siamo anche i colleghi. C'è anche Enzo Iacopino, in rappresentanza di tutti i giornalisti italiani. C'è anche Giuseppe Soluri, presidente dell'Odg Calabria. Iacopino e Soluri si sono costituiti parte civile. Sono rappresentati dall'avvocato Nicola Rendace, penalista del foro cosentino. Non è solo un atto di giustizia o un desiderio di verità. E' semmai la voglia, il dovere, soprattutto etico, deontologico e morale, di onorare la memoria di Alessandro Bozzo. In aula Piero Citrigno, non c'è. Ci sono i suoi legali di fiducia, gli avvocati Sergio Calabrese e Raffaele Brescia. Il giudice Castiglione, che presenzia l'udienza, chiede l'assegnazione del processo ad un altro giudice. Spiega che lui avrebbe a disposizione poche udienze a disposzione. Per questo processo, vista la sua delicatezza, c'è bisogno di tante udienza. Tante. E si opta per il rinvio. Mamma Venere ascolta in silenzio, abracciata alla figlia Marianna. Ci avviciamo per un abbraccio. Forte. “Vorrei – dice con gli occhi illuminati dalle lacrime – che sia fatta giustizia per Alessandro. Ma voglio, soprattutto, che alla figlia Venere venga restituito quello che è stato tolto al padre. E vorrei che le fosse assicurata una pensione, della quale Alessandro avrebbe avuto diritto di godere se, non fosse stato costretto a firmare delle dimissioni. Ho sempre creduto nella giustizia, ma in questo preciso momento storico non ci credo. Non ho perso totalmente la fiducia nella giustizia, altrimenti non avrebbe senso essere qui”.
LA TRAGEDIA – Non voglio raccontare una cruda storia di cronaca. Voglio, chiedendo scusa al mio editore, al mio direttore, ai miei colleghi di Calabria Inchiesta, ricordare il mio maledetto 15 marzo 2013. Era sera, io con altre due colleghe ero al teatro Rendano di Cosenza, inviato da un quotidiano on line a seguire un'opera lirica. Mentre le luci del Rendano sono spente e “l'occhio di bue” illumina la performance degli attori teatrali, vedo il display del mio cellulare lampeggiare. E' l'sms di un altro collega. “Che tragedia. Sono sconvolto. Hai saputo?”. Lascio il mio posto a teatro e vado fuori a telefonare. Il telefono del mio collega squilla all'impazzata, ma senza risposta. Se non quella della segreteria telefonica. Da cronista di nera, mi attivo e contatto la sala operativa di 118, 112 e questura. E' un luogotenente dell'Arma a darmi la notizia. “S'è sparato Alessandro Bozzo”. La vista mi si annebbia, il cuore mi si ferma, il sangue mi si congela nella vene. Lascio il teatro di corsa e mi reco fuori. A conoscere la verità. Terribile e inaccettabile. Alessandro Bozzo, non c'è più. E' morto suicida a 40 anni. S'è tolto la vita, sparandosi un colpo in testa, nella sua villetta di Marano. Il corpo è stato trovato senza vita sul divano del soggiorno. In mano aveva ancora la pistola, detenuta legalmente, che ha usato per mettere fine ai suoi demoni. Prima di “andarsene”, ha scritto su un biglietto le ragioni del suo gesto. Nulla contro nessuno. Ha avuto un pensiero per tutti, ha salutato tutti, una parola per ciascuno: moglie, figlia, amici, familiari e colleghi. Al suo funerale, celebrato a Donnici, nella sua Donnici, hanno presenziato migliaia di persone. Tanta gente, tanta gente. Alessandro vive, vive nel mio ricordo e da lì non andrà mai via. Ciao amico mio, ciao fratello.
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