Libri. Presentato a Molfetta 'UN PROCESSO PER STUPRO' di Loredana Rotondo alla libreria Il Ghigno
Una immagine della presentazione. (foto A.V.) ndr. |
di Angelica Vecchio
MOLFETTA, 22 NOV. – Ha rappresentato un passaggio epocale nella storia civile contemporanea. Tutt’oggi è emblema di un cambiamento coatto anche nel modo di “fare” comunicazione. Una rivoluzione di genere che ha iniziato a far uscire la donna dalla condizione di marginalità per darle l’opportunità di espressione e di conseguire, seppur con immensa fatica, la tanto agognata parità sociale ed economica tra i sessi.
Si tratta del film – documentario Un processo per stupro diretto nel 1978 da Loredana Rotondo con il supporto di Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Dapoulo, Paola De Matteis e Annabella Miscuglio. Un sentito più che dovuto approfondimento sulla vicenda, anche in vista della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, è stato organizzato dalla libreria “Il ghigno – un mare di storie” di Molfetta con la partecipazione di Loredana Rotondo, autrice, programmista e regista Rai di documentari come “Alzare il cielo, ritratto di Carla Lonzi”, “AAA Offresi” e “Vuoti di memoria”. Censurato in prima battuta, per poi andare in onda sulla seconda rete della Rai-Tv nel 1979 alle ore 22:00, Un processo per stupro è la registrazione del dibattimento svolto a Latina per la violenza subita da una donna che ebbe il coraggio di denunciare i suoi aggressori.
Come racconta in maniera squisitamente femminista la Rotondo, è in assoluto il primo processo ad essere stato mandato in onda in un momento storico in cui lo stupro in Italia era ancora considerato un “reato contro la morale”. Oggi è paradossale pensare che, ai tempi si venisse puniti per aver commesso un reato contro la moralità pubblica e il buon costume e non per aver perpetrato un illecito contro la persona. Di fatti il documentario punta i riflettori sulla miseria degli argomenti, le complicità e gli ammiccamenti maschili e il tono sdegnoso degli imputati, retroscena di una mentalità ancora radicata in quegli anni nel nostro paese: la vergognosa giustificazione dei reati di violenza carnale.
Non a caso le ideatrici del film – documentario furono sei donne, tutte militanti nel movimento femminista e che, per la prima volta nella storia, vollero entrare in tribunale e costituirsi addirittura parte civile nell’ambito del processo per portare a compimento quello che da subito diventò simbolo dei tempi che stavano cambiando e della inadeguatezza che man mano si andava percependo riguardo il modello sociale patriarcale. Seppur la trasmissione televisiva suscitò polemiche, i grandi consensi riscossi portarono il filmato a vincere il Premio Italia 1979 come migliore documentario dell’anno non soltanto per lo stravolgimento scoiale, politico e congetturale che stava inaugurando ma anche perché stava nascendo un nuovo modo di comunicare, un modo diverso di usare la telecamera e di montare le immagini.
E non è da riferirsi alla mera un’evoluzione tecnica o tecnologica ma ad un cambiamento nel modo di concepire i messaggi e la loro trasmissione alla luce di una nuova mentalità che stava sempre più prendendo piede. La televisione, dunque sconfina il suo carattere prettamente pedagogico diventando la “Tv del vero”, una Tv che entra in contatto con la gente e con la loro concretezza per raccontarne la quotidianità . Da quell’istante in poi, fatti, cronache e rappresentazioni iniziano a raccogliere le sfide della vita reale. Cominciano ad apparire nel tubo catodico storie di donne vedove o di immigrazione, storie ai margini che sino a quel momento nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere in primo piano, sconfessando così l’ipocrisia di una società tutt’altro che perfetta.
Una collettività che lasciava intravvedere anche una crisi di valori rappresentata da un atto di violenza come lo stupro, dal disagio dell’emarginazione di un immigrato e ancor più da un padre di famiglia che si rivolge ad una prostituta, tradendo così i doveri etici di marito e padre esemplare. E anche questo risvolto della medaglia è catturato in un frammento indelebile della pellicola di “AAA Offresi”, documentario girato nel 1981 e mai andato in onda che raccontava la storia di Veronique, una «lucciola» francese. Dunque grande merito deve essere attribuito al lavoro di Loredana Rotondo che ha utilizzato il servizio pubblico per dare voce alle legittime istanze del femminismo e non solo, dando al Paese un forte contributo e una grande spinta al cambiamento sociale, etico e politico di cui è stata prima di tutto grande protagonista e fautrice e solo dopo spettatrice.
Una stimata professionista per cui «essere donna significa vedere il mondo con i propri occhi ed entrare in relazione con altre donne per farle crescere professionalmente attraverso il confronto e il dialogo, senza però mai tenere del tutto fuori dai giochi gli uomini». Chapeau!
Si tratta del film – documentario Un processo per stupro diretto nel 1978 da Loredana Rotondo con il supporto di Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Dapoulo, Paola De Matteis e Annabella Miscuglio. Un sentito più che dovuto approfondimento sulla vicenda, anche in vista della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, è stato organizzato dalla libreria “Il ghigno – un mare di storie” di Molfetta con la partecipazione di Loredana Rotondo, autrice, programmista e regista Rai di documentari come “Alzare il cielo, ritratto di Carla Lonzi”, “AAA Offresi” e “Vuoti di memoria”. Censurato in prima battuta, per poi andare in onda sulla seconda rete della Rai-Tv nel 1979 alle ore 22:00, Un processo per stupro è la registrazione del dibattimento svolto a Latina per la violenza subita da una donna che ebbe il coraggio di denunciare i suoi aggressori.
Come racconta in maniera squisitamente femminista la Rotondo, è in assoluto il primo processo ad essere stato mandato in onda in un momento storico in cui lo stupro in Italia era ancora considerato un “reato contro la morale”. Oggi è paradossale pensare che, ai tempi si venisse puniti per aver commesso un reato contro la moralità pubblica e il buon costume e non per aver perpetrato un illecito contro la persona. Di fatti il documentario punta i riflettori sulla miseria degli argomenti, le complicità e gli ammiccamenti maschili e il tono sdegnoso degli imputati, retroscena di una mentalità ancora radicata in quegli anni nel nostro paese: la vergognosa giustificazione dei reati di violenza carnale.
Non a caso le ideatrici del film – documentario furono sei donne, tutte militanti nel movimento femminista e che, per la prima volta nella storia, vollero entrare in tribunale e costituirsi addirittura parte civile nell’ambito del processo per portare a compimento quello che da subito diventò simbolo dei tempi che stavano cambiando e della inadeguatezza che man mano si andava percependo riguardo il modello sociale patriarcale. Seppur la trasmissione televisiva suscitò polemiche, i grandi consensi riscossi portarono il filmato a vincere il Premio Italia 1979 come migliore documentario dell’anno non soltanto per lo stravolgimento scoiale, politico e congetturale che stava inaugurando ma anche perché stava nascendo un nuovo modo di comunicare, un modo diverso di usare la telecamera e di montare le immagini.
E non è da riferirsi alla mera un’evoluzione tecnica o tecnologica ma ad un cambiamento nel modo di concepire i messaggi e la loro trasmissione alla luce di una nuova mentalità che stava sempre più prendendo piede. La televisione, dunque sconfina il suo carattere prettamente pedagogico diventando la “Tv del vero”, una Tv che entra in contatto con la gente e con la loro concretezza per raccontarne la quotidianità . Da quell’istante in poi, fatti, cronache e rappresentazioni iniziano a raccogliere le sfide della vita reale. Cominciano ad apparire nel tubo catodico storie di donne vedove o di immigrazione, storie ai margini che sino a quel momento nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere in primo piano, sconfessando così l’ipocrisia di una società tutt’altro che perfetta.
Una collettività che lasciava intravvedere anche una crisi di valori rappresentata da un atto di violenza come lo stupro, dal disagio dell’emarginazione di un immigrato e ancor più da un padre di famiglia che si rivolge ad una prostituta, tradendo così i doveri etici di marito e padre esemplare. E anche questo risvolto della medaglia è catturato in un frammento indelebile della pellicola di “AAA Offresi”, documentario girato nel 1981 e mai andato in onda che raccontava la storia di Veronique, una «lucciola» francese. Dunque grande merito deve essere attribuito al lavoro di Loredana Rotondo che ha utilizzato il servizio pubblico per dare voce alle legittime istanze del femminismo e non solo, dando al Paese un forte contributo e una grande spinta al cambiamento sociale, etico e politico di cui è stata prima di tutto grande protagonista e fautrice e solo dopo spettatrice.
Una stimata professionista per cui «essere donna significa vedere il mondo con i propri occhi ed entrare in relazione con altre donne per farle crescere professionalmente attraverso il confronto e il dialogo, senza però mai tenere del tutto fuori dai giochi gli uomini». Chapeau!
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