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Teatro. Via alla stagione del “Duse” di Bari, con “L’ultimo atto”

Una immagine della rappresentazione. (foto M.C.) ndr.

di Maria Caravella 

BARI, 29 SETT. - “L’ultimo atto”, liberamente tratto da “All that fall” (“Il dominio oscuro”), di Samuel Beckett, ha aperto la stagione 2015/2016 del Teatro “Duse” di Bari. Un testo tutt’altro che facile, che contiene un messaggio sottile quanto sublime: «Il dominio oscuro dei nostri istinti può sorprenderci ed indurci ad azioni inimmaginabili». Prima di iniziare, Carlo Formigoni, regista e protagonista, e gli attori che lo affiancano incontrano in maniera informale il pubblico del “Duse” e lo introduce allo spettacolo. Formigoni spiega agli spettatori che negli anni ‘50 Beckett cambiò il teatro. Si tratta di un autore ironico che “pesca nel profondo” dell’essere e dell’agire umano e pertanto solo ad un autore di tale spessore poteva essere concesso di trasformare un “mostro da prima pagina” in un essere umano dalla banale quotidianità. La signora Rooney – interpretata da un’Angelica Schiavone dai tratti felliniani che ricordano la mitica Giulietta Masina – moglie vecchia e trasandata, aspetta in stazione il signor Rooney (l’impareggiabile Carlo Formigoni), marito cieco e trascurato. Il treno tarda: si è fermato perché, proprio lui, armato da insana follia ha compiuto un gesto terrificante. Al suo arrivo, i coniugi, all’interno di quella tragica personale e ontologica condizione, s’intrattengono a parlare del più e del meno, facendo riferimento anche a tematiche attuali che sembrano coinvolgere il pubblico (l’amore tra persone della terza età, le tenebre che offuscano la mente di un vecchio, i dolori, non solo fisici e gli acciacchi della vecchiaia). “L’ultimo atto”, allora, assume cadenze da giallo. L’idea che il marito della tenera miss Rooney nasconda qualcosa s’insinua poco a poco nello spettatore e strisciando lentamente assume importanza sino alla sconvolgente rivelazione finale. Carlo Formigoni usa prassi teatrali originali, come quella di situare i protagonisti all’interno di una baracca nera, simile a quella del teatro dei burattini, e lasciarli lì per tutta la durata dello spettacolo. Recitano a mezzo busto, in un discorrere a tratti cedevole, a tratti pungente, quasi agganciato forzatamente alla quotidianità del mondo. Tranne poche intrusioni del versatile Giovanni Calella, prima nei panni del ciclista Tyler e poi del capostazione Barrel, tutto si esaurisce all’interno del medesimo spazio scenico, quello “della baracca”, quasi a voler rievocare il magnetismo del rettangolo della radio o della neonata televisione, su cui negli anni ‘50 si convogliavano rapiti gli sguardi di allora. Sempre in linea con i radiodrammi che nel ‘56 confermarono anche via etere il talento di Samuel Beckett, consacrato al grande pubblico anche grazie al successo di “Aspettando Godot”, lo spettacolo di Formigoni si rifà anche a ciò che ancora oggi fa parlare di Beckett: l’impiego di suoni riprodotti in diretta invece di ricorrere a quelli presenti in archivio e registrati dal vivo. L’idea era quella di assegnare al lavoro dei “rumoristi” la stessa importanza del lavoro degli interpreti. L’energia sprigionata dalla novità doveva amplificare il potere evocativo affidato alle voci. A dare suono al treno che passa, alla pioggia che batte o al vento che soffia, infatti, provvedono a turno gli stessi interpreti, mai operando a vista. L’idea della messa in scena è molto coinvolgente, ma di difficile ricezione. Nonostante “l’ante spettacolo” di Formigoni “L’ultimo atto” richiede al pubblico concentrazione e disposizione attiva oltre ad una profonda immersione nel “teatro dell’assurdo” di beckettiana memoria. Il pubblico però ci sta e ripaga ampliamente e con generosità di applausi l’affiatato cast.





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