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Attualità. Viale Giotto: una ferita che fa sanguinare il cuore di Foggia da 16 anni

Viale Giotto, il "Parco della Memoria" (ph.: Baratta)
di Nico Baratta
FOGGIA, 11 NOV. – Ricorre oggi il 16mo anniversario della tragedia di viale Giotto, a Foggia. Un palazzo sbriciolato, 67 persone sotto le macerie: bambini, uomini, donne, anziani furono aggrediti, inermi e sorpresi, dalla morte. Per Foggia e tutti i foggiani uno dei più grandi – forse il più grande – shock del dopoguerra. Una fatalità che poteva essere evitata, come accertarono le indagini. Gli “Angeli di viale Giotto” furono uccisi dall’imperizia di altri loro concittadini, che avevano costruito e poi modificato lo stabile in maniera da comprometterne la staticità e causandone l’implosione messaggera di morte.
Il ricordo è ancora vivo e doloroso in tutti i cittadini. Molti, infatti, quel giorno hanno perso persone care, un amico o anche un semplice conoscente. Anche chi scrive. Quel maledetto 11 novembre 1999 sanguina nei troppi cuori dilaniati dal lutto, fatti a brandelli in un ricordo che tuttora provoca un dolore soffocante, che il tetro spettacolo di tante bare una accanto all’altra dice che quel giorno la morte si sentì, si respirò, si vide. A Foggia la ricorrenza è commemorata dalle istituzioni, dalla società civile, dai foggiani. Ma è anche ricordata in maniera vivida da chi ha perso i suoi cari.
Come Giovanna Zezza Ronin, oggi mamma e moglie, che affida a La Gazzetta Meridionale la sua struggente testimonianza di donna che quel giorno ha perso tutta la sua famiglia (padre, madre e fratello) e che – giustamente – vuole mantenere acceso il ricordo.
«Tra il 9 e 10 novembre 1999, in piena notte, nella mia camera sentii un forte rumore come se un grosso vaso di terracotta si fosse rotto. Il 10 mattina, completamente indaffarata perché dovevo partire, mi scordai di riferire a mia madre dell'accaduto. Alle 15.15 presi il treno che mi avrebbe salvato la vita. Avevo litigato con mia madre (una delle tante volte), poiché mi negava il permesso. Durante il viaggio avevo una forte sensazione che mia madre sarebbe morta di lì a poco. L’avevo già da qualche giorno, ma si rafforzò soprattutto in quel treno.
Arrivai ad Ancona dove proprio l’11 novembre avrei dovuto festeggiare il 4° anniversario di fidanzamento con l’uomo che oggi è mio marito (oggi sono 20 anni di vita insieme). Quella fu una notte di incubi: sognai persone che si gettavano dal mio palazzo. La mattina dopo fui svegliata di soprassalto dal mio fidanzato, che si era precipitato a casa dal lavoro. Le notizie erano frammentarie e confuse, dai telegiornali non si capiva granché.
Ritornai a Foggia per scoprire con i miei occhi che il palazzo in cui avevo vissuto 21 anni era una montagna di macerie. All’obitorio aspettavo l’arrivo dei corpi ormai senza vita dei miei cari. Ferma davanti alla chiesetta sentii la voce a distanza di mia madre che mi chiamava. Era appena giunta l'ennesima ambulanza con un cadavere: era proprio lei. La riconobbi dal pigiama e dalle calze. Poco dopo anche il corpo di mio padre: per quanta polvere aveva addosso, sembrava più vecchio di 20 anni. Speravo che mio padre, uomo forte di carattere e di fisico, fosse sopravvissuto.
Quel giorno mi ritrovai già donna, cresciuta improvvisamente in una notte. Avevo perso tutto: la casa, i genitori, un fratello meraviglioso; anche i ricordi materiali mi erano stati portati via. Mi aggrappavo a qualunque cosa trovassi nel capannone dove era stato ammassato quello che veniva recuperato: pezzi di fotografie, indumenti, oggetti all’apparenza inutili che mi ricordassero il mio focolare.
Poi una battaglia di alcuni anni, con l’allora sindaco della mia città che alla fine dovette eseguire (contro la sua volontà ed aspettative) un'ordinanza ministeriale da me suggerita, per il bene di tutti, ma concepita dal Presidente del Consiglio dell'epoca, a cui devo tutto, soprattutto la mia salute mentale. Con ciò si realizzò la ricostruzione del palazzo gemello e il rimborso dello Stato finalizzato all'acquisto di altro immobile.
Sono passati 16 anni, avrei voluto vedere i miei cari invecchiare, tenergli la mano, godere di un loro abbraccio, ascoltare i loro consigli. Anche questo mi è stato negato. Ma nessuno mai sarà in grado di togliermi il sorriso e la mia dignità, il mio brutto carattere, ma anche la mia dolcezza, figlia di tanto dolore e di serenità nella tragedia».







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