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Strage di Via Fani. I troppi misteri del caso Moro

Il sequestro in via Fani. (foto Agi) ndr.

di Redazione

ROMA, 18 MAR. (AGI) - Dal commando di via Fani alle mancate perquisizioni dei covi. Cosa, 40 anni dopo, ancora non torna Il 16 marzo di 40 anni fa alle 9,02 un commando composto da 10 terroristi delle Brigate Rosse compie la strage di via Fani e rapisce il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, che viene tenuto in ostaggio per 55 giorni per poi essere “giustiziato”. Il suo cadavere viene fatto trovare in una Renault rossa in via Caetani, una strada che si trova giusto a metà strada fra via delle Botteghe Oscure (sede dell’allora Pci) e Piazza del Gesù (sede della Dc). In 40 anni non sono stati sufficienti ben 5 processi in Corte d’Assise a Roma (conclusisi con raffiche di ergastoli), due commissioni parlamentari dedicate esclusivamente al sequestro e all’omicidio della statista democristiano e una commissione stragi che affrontò ugualmente il caso, per sciogliere i misteri che circondano quei drammatici 55 giorni che cambiarono la storia dell’Italia. “Sì – commenta laconico Antonio Marini, pubblico ministero dei processi in Corte d’Assise a Roma – purtroppo sono rimasti i cosiddetti ‘buchi neri’. Mi sono dannato tutta la mia vita di magistrato (oggi in pensione, ndr) per trovare le risposte a una serie di interrogativi. Non mi sono mai arreso e fino a quando sono rimasto in magistratura ho sempre cercato la verità. Poi non ci sono riuscito”. Ma quali sono i misteri che ancora oggi circondano la strage di via Fani? Su quei dannati 55 giorni di prigionia di Aldo Moro si è detto e scritto di tutto: dalla teoria che le Brigate Rosse fossero eterodirette o dal Kgb o dalla Cia (perché entrambe le due potenze, in piena guerra fredda, non vedevano di buon occhio il compromesso storico tra Dc e Pci), ai palestinesi dell’Olp, dalla ‘ndrangheta allo zampino dei servizi segreti deviati. “Certo – dice ancora Marini – tutto è possibile ma non ci sono le prove. Sono successi dei fatti che hanno lasciato e lasciano perplessi, ma un magistrato deve accertare i fatti con tanto di prove. La magistratura ha fatto tutto quello che poteva fare. Del caso Moro si sono interessati fior fiore di magistrati che hanno esaminato tutti gli atti. Ci sono stati 5 processi e numerose commissioni parlamentari. Ma sono rimasti tanti misteri”. 

I brigatisti coinvolti 

Ma togliendo le piste internazionali (Kgb, Cia e Olp) alcuni misteri sono veramente inquietanti. Cominciamo dal numero dei brigatisti coinvolti nel sequestro Moro, dai componenti del commando presente in via Fani a chi dava invece la copertura nel covo-prigione di Moro in via Montalcini. Nei vari processi che si sono succeduti sono stati condannati con sentenza definitiva Barbara Balzerani, Mario Moretti, Valerio Morucci, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Adriana Faranda, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Anna Laura Braghetti, Alessio Casimirri e Germano Maccari. In tutto 11, 9 dei quali erano presenti in via Fani con ruoli diversi: dal gruppo di fuoco, agli autisti fino alle staffette. Già ma nel corso delle varie inchieste emergono due nuovi elementi inquietanti: la presenza di due uomini a bordo di una moto Honda, uno dei quali armato di mitraglietta che controllavano a distanza le fasi del sequestro e quella del colonnello del Sismi Guglielmi (deceduto qualche anno fa). I due uomini a bordo della moto non sono mai stati identificati, ma tra le varie ipotesi (mai accertate) venne avanzata anche quella che appartenessero ai servizi. Il colonnello Guglielmi venne anche interrogato sulla sua presenza in via Fani praticamente al momento della strage: disse che si trovava nella zona perché si stava recando a colazione da un suo amico. Una spiegazione che non dissipò i dubbi. 

La prigione di Via Montalcini 

Nel luglio del 1978, quando l’appartamento era ancora abitato da Anna Laura Braghettti e da Prospero Gallinari fu oggetto di una segnalazione da parte di un condomino che aveva notato una Renault rossa sospetta. “Le attività di polizia – si legge nella relazione della commissione parlamentare depositata nel dicembre 2017 - però non compresero una perquisizione dell’appartamento della Braghetti che, a quella data, ancora vi viveva, forse con Gallinari. Anche l’escussione dell’ex ispettrice di polizia Paola Carraresi, che fu impegnata nei pedinamenti della Braghetti, evidenzia le criticità di un’operazione di polizia mal progettata e mal gestita”. Già, una “operazione mal gestita”, ma da un’inchiesta giornalistica di Repubblica, svolta da Luca Villoresi, emerge un fatto ancora più inquietante. Ascoltato dalla commissione parlamentare il giornalista afferma: “Ho tra l’altro appreso in occasione degli accertamenti da me effettuati in via Montalcini che qualcuno, durante il sequestro Moro, avrebbe chiamato la Questura per fare una segnalazione circa i suoi sospetti sull’appartamento in questione”. “Affermazione – si legge nella relazione - che potrebbe riferirsi a una segnalazione relativa a un contrasto condominiale che avrebbe coinvolto la Braghetti e un condomino o a una segnalazione di tale Maria Agata Tombellini. In entrambi casi, peraltro, un appunto del 3 ottobre 1978 riferiva che non risultavano agli atti del Commissariato “San Paolo” evidenze in merito”. 

I misteri di Via Gradoli 

In questo appartamento vivevano durante i 55 giorni di prigionia di Aldo Moro, Mario Moretti, alias ing. Borghi e sua moglie, Barbara Balzerani. Una vicina di casa si lamentò dei continui rumori provenienti da quell’appartamento soprattutto di notte. Come se stessero battendo un alfabeto Morse. Probabilmente Moretti e Balzerani stavano battendo con la macchina da scrivere i comunicati delle bierre sul sequestro Moro. Fatto sta che, scrive la commissione parlamentare, “una squadra del Commissariato Flaminio Nuovo, guidata dal brigadiere Domenico Merola, aveva in precedenza effettuato un controllo dello stabile di via Gradoli 96. In quella occasione il covo brigatista, però, non fu perquisito, perché i suoi inquilini erano assenti e perché gli operanti non ravvisarono dagli altri condomini motivi di sospettare una presenza brigatista”. Forse è il caso di ricordare che in quei giorni dannati polizia, carabinieri e tutte le forze dell’ordine, quando facevano le operazioni, se non trovavano gli inquilini buttavano giù le porte di ingresso senza troppe esitazioni. Ma su questo episodio l’ex magistrato Antonio Marini non se la sente di infierire e si limita a sottolineare: “Due sono le cose, o si ammette che si possa sbagliare, oppure no. Gli errori sono sempre dietro l’angolo. Io credo nell’errore”. 

I manoscritti 

Un altro grande mistero riguarda poi i manoscritti originali di Moro: gli originali non vennero mai trovati, solo fotocopie. E questo è molto strano perchè nessuno tra dissociati e pentiti ha mai dichiarato che quelle carte vennero distrutte. Qui finisce la storia dei grandi misteri che circondano quei 55 giorni di prigionia. Però ci si potrebbe interrogare anche su un altro aspetto: se è vero quello che raccontano gli ex brigatisti rossi, sia i dissociati Morucci e Faranda, sia i pentiti come anche i capi storici come Mario Moretti (che non ha mai collaborato alle indagini) che dietro le Br non c’erano servizi segreti stranieri e che non erano eterodiretti da nessun forza occulta. Possibile che servizi segreti italiani di allora non fossero in grado di infiltrare o di avere un informatore nell’organizzazione terroristica? Strano.



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