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Politica. Come nel 1948, c’è bisogno di dire la verità al Paese

Elezioni politiche del 1948. (foto com.) ndr.
La grande sfida


di Gaetano Quagliariello

BARI, 7 GIU. (L'OCCIDENTALE) - Uno dei miti della storia dell’Italia Repubblicana più difficili da sfatare è quello secondo il quale l’esito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 – allorquando si determinò la collocazione geopolitica dell’Italia in un mondo che si era diviso in sfere d’influenza contrapposte – sarebbe stato deciso dalle “Madonne pellegrine”. Si trattava di lunghe e spettacolari processioni, perlopiù notturne, organizzate dai Comitati Civici di Gedda, che portavano la statua di Maria in diversi luoghi di una diocesi o anche in territori più estesi, toccando parrocchie, fabbriche, luoghi di tradizionale aggregazione contadina. Il tutto accompagnato da preghiere, canti e veglie. L’Italia del dopoguerra era un Paese prevalentemente rurale nel quale il processo di secolarizzazione non aveva ancora iniziato il suo corso. In tale contesto, lo sforzo organizzativo compiuto dai comitati geddiani per tenere testa ai partiti del Fronte Popolare, assai più strutturati, non può certo essere trascurato. Il mito delle Madonne Pellegrine, però, è così duro a morire per motivi ben più prosaici. Attraverso di esso, in maniera indiretta e subliminale – dicendo senza dire, insomma -, s’intende conferire una torsione caricaturale alle ragioni per le quali gli italiani scelsero di stare dalla parte dell’Occidente. E si contrappone la scelta che si vorrebbe consapevole della parte intellettuale, emancipata, progressista del Paese a quella di una maggioranza condotta alle urne sulle ali della superstizione religiosa. Ci sarebbe già tanto da argomentare a questo punto. In ogni tempo, evidentemente, vi sono degli “illuminati” che considerano il popolo sovrano solo quando è dalla loro parte, sennò meglio levargli il diritto di voto e derubricare il suffragio universale a “sovrastruttura”. C’è però dell’altro, perché nella realtà storica di quel tempo la componente religiosa e la propaganda geddiana che l’amplificava non vanno sottovalutate ma non furono i motivi decisivi dell’esito di quelle elezioni. Nel 1948 la maggioranza degli italiani fece una consapevole scelta di civiltà schierandosi a favore dell’economia di mercato e della società capitalista incarnate dall’America contro l’economia di piano e la società comunista incarnate dalla Russia staliniana. Oggi l’Occidentale ripropone una intervistadi Luigi Einaudi sul Piano Marshall, rilasciata alla vigilia di quelle fatidiche elezioni. Quell’articolo spiega bene quanto vorremmo dimostrare. L’Italia scelse l’America e il suo Piano innanzitutto per necessità: perché la situazione economica del Paese, senza quei soldi, avrebbe determinato “deficienza di nutrizione per la popolazione e incremento notevolissimo della disoccupazione”. Non fu nascosto, allora, che quei denari avrebbero comportato l’accettazione di alcune condizioni. Ma chi sostenne la scelta del Piano Marshall provò a dimostrare che le condizioni poste erano razionali e per questo accettabili. Si dichiarò poi senza remore non già che il Parlamento sarebbe stato “reso edotto” dell’utilizzo di quei soldi ma che la scelta sarebbe spettata ad esso, custode della rappresentanza del popolo. Si presero in considerazione le possibili alternative, valutando laicamente e senza pregiudizi persino l’ipotesi di un rapporto privilegiato con la Russia. Infine, a valle di tutto questo argomentare, si evidenziò come gli americani non fossero dei semplici filantropi: il fatto che il mondo non cadesse in miseria sarebbe convenuto anche a loro perché “gli Stati Uniti non possono sperare di incrementare produzione e traffici se si trovano di fronte a popoli poveri. (…) L’arricchimento dell’Europa è condizione necessaria all’arricchimento, o all’ulteriore arricchimento, degli Stati Uniti”. Così parlarono Einaudi e la classe politica dei national builders che, in uno dei frangenti più duri e drammatici della storia d’Italia, ci salvarono dalla fame e dal comunismo. La loro lezione ha un risvolto terribilmente attuale dal momento che il dopo-Covid rassomiglia tanto a un dopoguerra simmetrico, perché non conosce la distinzione tra vincitori e vinti. Anche oggi però, esattamente come allora, si avverte la necessità che si parli chiaro. Iniziando dallo stabilire che – anche a causa delle scelte sbagliate di un governo che continua a sfornare proclami tanto entusiasti quanto vacui – dopo l’estate avremo un disperato bisogno di liquidità per evitare che una parte consistente del Paese soffra la fame e/o perda il lavoro. Bisogna poi che si prenda seriamente in considerazione quanto ci ha spiegato Federico Fubini – e non Matteo Salvini – sulle pagine del Corriere della Sera: la soluzione al problema non potrà venire dal Recovery Fund perché quei soldi – in ogni caso una svolta per l’Europa – arriveranno solo a partire dal 2021 (e per i due anni seguenti) e ad oggi non sappiamo ancora quanti saranno davvero al netto dei contributi comunque dovuti e neppure con precisione a quali condizioni ci verranno dati. Sappiamo solo che una parte saranno dei “doni”, un’altra dei “prestiti”. Per questo – per disperazione assai più che per convenienza – dovremo probabilmente ricorrere al Mes e dovremo pure chiedere che la destinazione dei denari previsti da quel trattato non sia limitata alle sole spese sanitarie. Anziché baloccarsi con l’europeismo, quasi fosse una nuova ideologia della salvazione, qualcuno dovrebbe anche ammettere apertamente e a testa alta che tutto ciò comporta l’accettazione di condizioni. Perché un trattato già esistente non può essere modificato da un semplice accordo politico e perché un Paese col nostro debito pubblico può farne dell’altro in misura così consistente solo se si tratta della necessaria premessa per una inversione di rotta. Si dovrebbe avere anche il coraggio di dire che l’unica alternativa a disposizione non è l’isolarsi in un irreale sovranismo ma concedersi alla Cina, soluzione alla quale qualcuno, nemmeno troppo nascostamente, sta fattivamente pensando. Si dovrebbe aggiungere, però, che quest’ultima opzione comporterebbe l’adesione a principi e a una concezione della libertà inaccettabili e che, per di più, in un mondo meno globalizzato come quello che si annuncia nel post-Covid non è nemmeno così conveniente dal punto di vista economico. Infine, col linguaggio del realismo proprio della politica di potenza, andrebbe descritta la svolta dell’Europa come qualcosa di profondamente diverso da una conversione sulla via di Damasco. Essa nasce dalla convinzione, maturata innanzitutto in Germania, che l’egemonia tedesca e il sistema economico sul quale essa si basa non possono limitarsi a preservare l’area del Baltico se nel contempo territori vastissimi dell’Europa centro-meridionale e mediterranea entrano in una spirale di povertà e deindustrializzazione. Vista la nostra condizione, questa è una realtà da accettare con consapevolezza, cercandone un bilanciamento in un rapporto bilaterale con gli Stati Uniti in un mondo il cui equilibrio sembrerebbe tornare a fondarsi sulla dialettica tra una logica bipolare e sistemi regionali che ad essa comunque fanno riferimento. Nei prossimi giorni dovranno esserci donne e uomini in grado di parlare questo linguaggio, così come vi è stato chi ne fu capace dopo il disastro della guerra e della resa incondizionata. Solo in questo caso potremo ancora sperare che l’eclissi delle forze di libertà in Italia non sia per sempre e che il Paese, anche questa volta, ce la possa fare.



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